La conferma viene dagli scavi archeologici nella piana di Giza, che hanno portato alla luce le tombe dei manovali che 4.500 anni fa parteciparono alla costruzione delle piramidi di Cheope e Chefren: erano egizi e non schiavi (che in Egitto erano soltanto prigionieri di guerra stranieri).
I grandi progetti di interesse nazionale, piramidi ma anche dighe, erano affidati alla popolazione locale, tenuta a un periodo di lavoro obbligatorio in occasione delle piene del Nilo, quando i campi non erano coltivabili.
Lavorare per l’ultima dimora del faraone garantiva un ottimo vitto: le famiglie più ricche inviavano ogni giorno 21 vitelli e 23 montoni ai cantieri, in cambio di sgravi fiscali.
Poteva però capitare che vettovaglie o salari arrivassero in ritardo. Allora gli operai si “coricavano”, secondo l’espressione egizia, ovvero scioperavano. Secondo le testimonianze che ci sono pervenute accadde varie volte: una delle più importanti descrizioni è in un papiro conservato al Museo Egizio di Torino, che riporta le proteste avvenute nel 29° anno di regno di Ramses III (intorno al 1180 a. C.). Si tratta di un’epoca successiva alla costruzione delle piramidi, durante la quale, però, gli operai addetti alle tombe monumentali (per esempio nella Valle dei Re) avevano a disposizione villaggi dove vivere comodamente, con tanto di scuole.
Come nacque allora la credenza? La colpa fu degli storici greci, che non riuscivano a immaginare la costruzione di quegli edifici senza l’impiego di masse di schiavi. Ma anche della Bibbia, dove si dice che la schiavitù era diffusa in Egitto.