Nel 1086 Guglielmo il Conquistatore diede origine a quello che viene definito il più antico catasto inglese ed il primo di tutto il medioevo: il “Domesday Book”. Il manoscritto originale, scritto in latino su pergamena , è tutt’ora esistente e conservato negli archivi nazionali britannici, nel distretto londinese di Kew.
Nel 1983, durante il governo Thatcher, si decise di fare un “Domesday Book” nuovo che utilizzasse le più moderne tecnologie allora disponibili: il videodisco ed il microcomputer. Quindici anni più tardi tutto il lavoro fatto rischiava di essere inutilizzabile in quanto, anche se il supporto era ben conservato era diventato quasi impossibile trovare un lettore per il videodisco ed un microcomputer in grado di decodificare i dati.
Per fortuna si riuscì a trovare un lettore ed un computer adatti, a recuperare tutto e mettere online i contenuti.
La scelta nel 1983 di utilizzare come supporto un videodisco non sembrava strana: negli anni ’80 la tecnologia laser per la lettura dei dati era al suo inizio e rappresentava il futuro. Il metodo per creare questi supporti, inoltre, era molto simile a quello dei normali CD (nati solamente da pochi anni) e, come loro, anche il videodisco era considerato il supporto perfetto in quanto era robusto, e destinato a durare a lungo.
Purtroppo gli inizi degli anni ’80 hanno rappresentato non solo l’inizio della massificazione dell’informatica ma anche il suo “brodo primordiale” nel quale vi era una quantità enorme di sistemi operativi, formati e standard diversi che nascevano e morivano. Per fare un esempio il DOS 1.2 che sarebbe diventato il sistema operativo di riferimento per le macchine XT compatibili era stato commercializzato da appena un anno ed in breve tempo la “lingua” nel quale erano stati memorizzati i dati del nuovo “Domesday Book” digitale era diventata sconosciuta e anche i mezzi erano spariti.
Fin dall’inizio dell’invenzione della scrittura, l’uomo ha conservato i documenti pensando che si potessero consultare per sempre purché non si rovinasse il supporto sul quale erano “memorizzati”: una vecchia pergamena sarà sempre leggibile (a patto di conoscere la lingua nella quale è stata scritta) semplicemente aprendola, così come un libro o una tavoletta cuneiforme. Il passaggio al digitale ha dimostrato che questo non è più possibile e che, oltre all’informazione, è importante avere anche lo strumento per leggerla. Nel 1965 Gordon Moore, cofondatore dei Intel, elaborò quella che passerà alla storia come legge di Moore: “La complessità di un microcircuito, misurata ad esempio tramite il numero di transistor per chip, raddoppia ogni 18 mesi (e quadruplica quindi ogni 3 anni).” Questa affermazione, basata su osservazioni empiriche, si rivelò esatta e divenne l’obbiettivo che tutte le aziende produttrici di microprocessori si pongono come obbiettivo.
Come diretta conseguenza di questo abbiamo una costante accelerazione della tecnologia e una conseguente evoluzione dei sistemi informatici. Prendiamo ad esempio il classico floppy disk: si è passati dal primo floppy ad 8 pollici a quello da 5 ¼ per finire con quelli da 3 ½ negli anni ’90 e primi anni del nuovo secolo per poi sparire completamente. Se oggi è ancora possibile trovare un lettore per “dischetti” da 3.5 pollici è molto difficile trovarne di quelli che leggono quelli precedenti da 5 ¼ e quasi impossibile quelli da 8” e chi trovasse in soffitta dei vecchi floppy quasi certamente si troverebbe nella condizione di non sapere cosa farsene o come leggerli.
Pensare che questo problema riguardi solamente i mondo dei computer è sbagliato.
Anche le cassette musicali o i vecchi video su VHS o Video 8 hanno subito lo stesso destino: gli strumenti per leggere questi supporti sono gradualmente spariti dagli scaffali dei negozi di elettronica e chi ha ancora delle vecchie video cassette, magari con le vacanze fatte con la famiglia una ventina d’anni addietro, rischia di non poterle più rivedere tra qualche decade.
Ma a creare problemi nel passaggio dall’analogico al digitale non è solamente l’utilizzo di un supporto anziché un altro ma anche, come abbiamo visto, la “lingua” nella quale le informazioni sono memorizzate, in particolare se la tecnologia ed il metodo di codificarle utilizza un formato proprietario.
I formati proprietari sono, in genere, dei metodi di codifica delle informazioni che utilizzano algoritmi che appartengono a qualche azienda o organizzazione che ne dispone i metodi di utilizzo. Se un domani chi detiene il brevetto per questo tipo di codifica decidesse di non renderlo più disponibile nei suoi programmi o in quello di altri si perde la possibilità di poter accedere nuovamente ai propri dati. Vice versa l’utilizzo di quelli che vengono chiamati formati aperti, permette di memorizzare le informazioni in formato digitale utilizzando dei metodi che sono di dominio pubblico e liberamente utilizzabili.
Un esempio di quanto l’utilizzo di un formato aperto sia importante lo si trova negli ebook.
Alla fine degli anni ’90 l’azienda statunitense Microsoft lanciò sul mercato un suo formato per leggere gli e-book; un formato che offriva la possibilità di avere file leggeri e una buona leggibilità su schermi piccoli. In particolare Microsoft stava entrando a gamba tesa nel mercato dei dispositivi mobili come PDA, Palmari, Pocket PC e smartphone con il suo sistema operativo Windows CE ed il formato .lit era perfetto per poter sviluppare un mercato di editoria digitale su questo tipo di dispositivi che utilizzavano questo il sistema operativo. Per circa una decina d’anni (fino al 2011) il formato Microsoft visse una parabola: prima una crescita e poi una discesa fino a non venir più aggiornato e supportato, così che tutti i libri distribuiti in quel formato sono ora leggibili solo tramite il sistema operativo Windows che supportano l’ultima versione del programma Microsoft Reader, in quanto i moderni lettori di e-book non hanno più la compatibilità con questo formato. Al suo posto, invece, il formato .ePub, nato nel 2007 come formato aperto, è diventato lo standard preferenziale per quasi tutti i lettori di e-book (fanno eccezione i Kindle che supportano il formato proprietario .mobi), tanto che esistono migliaia di app e programmi che possono supportare questo formato.
È quindi importante, quando si decide di memorizzare delle informazioni per essere conservate fare attenzione al formato che si vuole utilizzare: se memorizzo del testo formattato è sempre meglio optare per il formato .ODT anziché .DOC o DOCX di word, così per le pagine web è sempre meglio preferire il formato HTML al posto del .WebArchive che è leggibile solamente dal browser Safari di Apple.
Il passaggio dai dati analogici a quelli digitali (dalle cassette ai CD, dai VHS ai DVD, eccetera) è comunque un passaggio inevitabile e, malgrado quanto detto fino ad ora, la possibilità di salvare qualcosa in una sequenza di 0 e 1 offre una serie di vantaggi che non si possono ignorare.
Rispetto ad un’informazione analogica, quella digitale può essere riprodotta infinite volte anche dalle sue stesse copie, rimanendo sempre fedele all’originale (a meno che non venga deliberatamente modificata). Un manoscritto, se è copiato con un errore, quest’errore verrà ripetuto anche nelle copie successive; una cassetta, musicale o video che sia, tenderà a perdere di qualità con il tempo e quest’informazione errata sarà amplificata nelle copie successive, così come una serie di fotocopie fatta da altre fotocopie tenderà ad essere sempre più chiare e quindi differire dall’originale.
Per chi si preoccupa che anche nel copiare un dato in digitale possa generarsi un errore di trascrizione bisogna sottolineare quanto questo sia improbabile: si può trasmettere un’informazione che contiene al suo interno i dati necessari per la correzione degli errori (come ad esempio il codice Reed-Solomo del 1960) che permettono, anche nel caso una parte di dei bit che compongono il messaggio memorizzato o inviato siano rovinati, di poter ricostruire la sequenza digitale originale per quel bit in modo da avere l’informazione completa. Ogni giorno, quando guardiamo la televisione digitale (per chi come me ha anche visto i vecchi tv analogici) ci accorgiamo che l’immagine è sempre o chiara e pulita oppure assente completamente, e non più come nelle vecchie trasmissioni in analogico dove spesso i programmi erano disturbati. Questo perché un’informazione in digitale, come abbiamo detto è in grado di auto correggersi ed eliminare il “rumore”.
Da un punto di vista economico, salvare i propri dati in formato digitale offre dei grandi risparmi. Stampare una foto analogica, ad esempio, ha un costo di circa 8,50 € per un rullino da 25 pose di pellicola negativa in bianco e nero, 7,50 € per i negativi a colori (procedimento C41) e 11 € per le diapositive (procedimento E6) più 2 € per l’intelaiatura per queste ultime. Al costo della stampa va poi aggiunto il prezzo del rullino che è di circa 6,00€ per 24 pose come nel caso del Kodak Gold 200. Facendo due conti veloci il costo di una foto in analogica è di circa 0,50€.
Utilizzare invece il formato digitale permette di visualizzare la foto su molti dispositivi, dagli smartphone alle televisioni senza costi di sviluppo. Considerando il prezzo di una scheda SD di buona qualità con una capacità di 64Gb è di circa 25,00€ e che si possono memorizzare più di 9.000 foto1, mentre per stamparle il costo è di circa 0.05€ a foto. Se poi si volesse memorizzare le foto anziché su di una scheda SD su di un Hard Disk il prezzo per Mb è ancora più basso.
Per finire, salvare i dati in formato digitale non solo è più conveniente, ma aiuta ad avere un impatto ambientale, sul breve periodo, molto basso.
I dispositivi non sono però tutti uguali e quando parliamo di Hard disk, memorie USB o schede SD bisogna sempre tenere presente che questi supporti hanno un numero massimo di scritture possibili e che Hard Disk e memorie allo stato solido come SSD, anche se possono sembrare simili, memorizzano i dati in maniera diversa: se per un tradizionale hard disk possiamo considerare una vita media di almeno 10 anni per una memoria allo stato solido come und disco SSD i dati si possono scrivere su una cella di memoria all'interno dei chip NAND Flash, un numero di volte compreso tra circa 3.000 e 100.000 nel corso del loro ciclo di vita. Questo ciclo di vita scende ulteriormente se si parla di schede SD o di chiavette USB.
Certo si può pensare di salvare tutti i dati su un supporto ottico come ad esempio un CD o un DVD ma anche in questo caso il nostro disco, anche se conservato con attenzione, non è detto che sia sicuro: negli ultimi anni si sono verificati casi di CD (spesso di fascia economica) dove lo strato protettivo di plastica si sfaldava lasciando esposta la parte interna che contiene i dati dopo solo 10 anni.
Per risolvere questi problemi nell’ultimo decennio si è iniziato ad utilizzare sempre di più il “Cloud” per salvare i dati importanti; alcune aziende mettono, addirittura, automaticamente a disposizione un servizio di cloud dove salvare i dati e le foto presenti nei propri telefoni cellulari come Apple o Google.
Ma anche in questo caso i dati non sono propriamente al sicuro, anzi forse lo sono ancora meno di altri supporti perché il vero proprietario è chi amministra il servizio di Cloud e non l’utente che salva i dati in quel posto e se l’azienda che è proprietaria dei server, per un qualunque motivo, decidesse di interdire l’accesso ai dati o di cancellarne il contenuto, l’utente non potrebbe fare nulla. L’utilizzo di un servizio remoto per salvare i propri dati è quindi da considerare come una copia della copia e non come la soluzione principale.
A questo punto viene da chiedersi: “se siamo passati dai 2000 anni circa di durata di un papiro ai 20 scarsi di un CD conviene passare i propri dati, le proprie memorie, la propria vita in un formato digitale?”
Malgrado quello che si può pensare la risposta è Si!
Un sì dato che i vantaggi superano di molto gli svantaggi; un sì che richiede l’uso attento di poche e semplici regole per preservare le nostre memorie, come l’utilizzo di supporti di qualità (soprattutto nel caso si utilizzino chiavette USB o CD piuttosto che DVD), avere sempre una copia della copia dei dati importanti e, ultimo ma non per questo di minor considerazione, utilizzare dei formati che siano il più aperti possibili come .JPG o .PNG per le foto, .ODT o .TXT per i testi, .XML o .HTML per il web, eccetera.
1Dati indicativi per difetto considerando foto a 16MPx e 72DPI.
BIBLIOGRAFIA:
- “Flash SSD vs HDD: High performance oriented modern embedded and multimedia storage systems”
Dr. Sanam Shahla Rizvi, Preston University, Conference: Computer Engineering and Technology (ICCET), 2010 2nd International Conference onVolume: 7, maggio 2020. - “Micron white papper: Comparing SSD and HDD Endurance in the Age of QLC SSDs”
https://www.micron.com/-/media/client/global/documents/products/white-paper/5210_ssd_vs_hdd_endurance_white_paper.pdf - https://www.nationalarchives.gov.uk/domesday/
- https://www.cmpod.net/all-transcripts/a-domesday-failure-digital-info-preservation-text/
- http://idpf.org/
- https://w3c.github.io/publishing/
- https://www.cs.cmu.edu/~guyb/realworld/reedsolomon/reed_solomon_codes.html
- Ultima consultazione siti web maggio 2021.